F.1 Gerhard Berger, una vita da battitore libero senza quel tocco d’anima

DI GIUSEPPE MAGNI

Gerhard Berger. Nato di 27. Ma sembra proprio che, lui, non abbia mai voluto esserlo, un 27. Troppa responsabilità, troppa la generosità necessaria, troppi vincoli morali. Essere un 27 voleva dire essere al centro delle attenzioni e dell’affetto degli appassionati. Voleva dire raccogliere la insostenibile eredità del 27 per eccellenza. Quel piccolo canadese che, il numero 27, lo rese immortale simbolo dell’estremo coraggio, dell’ardimento spinto oltre gli umani limiti, del cuore che andava messo a completa disposizione ogni quindici giorni, andava donato gratuitamente, andava totalmente regalato al Motorsport.

BERGER, UNO CHE E’ STATO UN 28, UN BATTITORE LIBERO

No, non faceva per Gerhard Berger. Lui é sempre stato un 28, un battitore libero, uno che, volendo, avrebbe, in qualsiasi momento, potuto svincolarsi, fare di testa sua. Come fece quell’altro, quel francese, quella maledetta domenica di Imola, qualche anno prima. O come fece lui stesso, in Messico, nel 1986, dove sublimò sul gradino più alto del podio l’ambizione di un visionario imprenditore veneto, che, nella vita, faceva e vendeva tutt’altro, roba semplice,  ma che, ad un certo punto, chissà perché, decise di dipingere dei suoi united colors un affare complicato come una monoposto di F.1. Oppure come in Germania, nel 1994, dove sorprese tutti con un acuto dei suoi, trasformando una Rossa, fino lì tanto vituperata quanto dilaniata nelle sue originali fattezze, in una principessa velocissima e bellissima, imprendibile sugli interminabili rettifili nel bosco tedesco.

QUELLA STACCATA A ESTORIL E LA VITTORIA IN MESSICO…

Berger al Loews a Montecarlo con la Benetton (Foto Ciccarone)

Oppure ancora come in Portogallo, nel 1987, dove decise di allungare una staccata, a tre giri dalla fine, tanto per rompere le uova nel paniere a chi già sognava una vittoria del Cavallino, dopo un duello fratricida con un 27 vero, autentico, dopo, come Michele Alboreto. La vittoria andò al professore Prost, su McLaren, che raggiunse, guarda un po’, le 28 vittorie, superando in quella occasione il record di vittorie di Jackie Stewart, fermo, lui definitivamente, a 27. Non potevano andare d’accordo, Gerhard e Michele. Del resto, nessun 27 è mai andato troppo d’accordo con un 28. Direi mai. Vogliamo andare a Monza, nel 1988, dove il nostro 28 tolse la vittoria al 27, lasciando tutto un Autodromo, un po’ così, appeso tra la gioia di una inaspettata vittoria è quella faccia, quella di Michele, appunto, tanto amato e tanto amareggiato, su quel podio strano?

UN ASBURGICO ANOMALO DAL CUORE COMBATTENTE

Che pretese, starete pensando voi. Chi lo ha mai visto un asburgico gettarsi con generosità nella battaglia? Chi ha mai visto un freddo austriaco aprire il cuore e donare amore vero al prossimo? Sì, d’accordo, ad un certo tipo di prossimo, il nostro Gerhard numero 28 un certo tipo di amore lo ha elargito a più non posso, benché sull’affetto e sulla effettiva generosità del quale mi permetto di nutrire più di qualche dubbio. Credo che questo suo essere libero e, soprattutto, libertino, possa essere stato uno degli elementi principali ad incuriosire Enzo Ferrari, noto amante delle belle donne e di tutte le storie su di esse potevano raccontargli i suoi piloti. E, infatti, lo prese con sé a Maranello.


Fu così che Gerhard Berger guidò la Rossa, massimo simbolo di amore per centinaia di milioni di appassionati, senza essere un 27. E senza essere neppure tanto austriaco, come beffardamente recitava il suo passaporto. Ma, allora, chi era, chi è realmente Gerhard Berger? Cosa ha rappresentato per l’Automobilismo sportivo si massimi livelli?

BERGER, UN MISTO FRA REGAZZONI E LAUDA CORAGGIOSO E CALCOLATORE

Gerhard è uomo e pilota molto intelligente, coraggioso a modo suo, soprattutto uno spirito libero. Un po’ Clay Regazzoni in chiave asburgica è un po’ Niki Lauda in chiave manager di sé stesso e anche di grandi aziende, come quella di trasporti di suo padre o come BMW, che, ad un certo punto, affidò a lui il suo programma sportivo.
Gerhard Berger è l’uomo, il pilota della sorprese, dei colpi di scena, come il micidiale uno-due di fine 1987, sempre con la Rossa. O come i famigerati, innumerevoli, quanto micidiali scherzi che giocava soprattutto ad Ayrton Senna, sua vittima preferita.


Credo potrebbe bastare notare l’evoluzione del disegno dei suoi caschi nel tempo, per cercare di capire chi fosse. Pur partendo solo dalla F.1, si passò da quello nero e blu cobalto della ATS a quello con i colori della bandiera austriaca sui lati l’anno dopo, a quello azzurro con pennellate verde rossa e gialla della prima epoca Benetton. Per arrivare a quello 1995, dove, per decidere il disegno del suo elmo, Gerhard stesso indisse un concorso nelle scuole. Il vincitore fu un sublime concentrato di bandiere, intitolato “Stop war in the world”, credo uno dei più bei caschi mai visti nella massima categoria automobilistica. Caschi e colori diversissimi, seppur calzanti la stessa testa. Un poliedrico, meraviglioso caleidoscopio di colori e di idee, il suo casco, esattamente come lui. Ondivago e brillante, sorprendente sempre. Instancabilmente intelligente, apparentemente incapace di trovare stabilità, ma sufficientemente avveduto e affidabile per essere un grande manager, anche ora, in ambito FIA.

IMPORTANTE NON STARE FERMO A FARE LA STESSA COSA

Basta non farlo stare fermo troppo a fare la stessa cosa. Quello no. Non lo potrebbe sopportare. Andò alla Benetton e poi venne alla Ferrari. Fu capace di tornare in entrambe le squadre, così, perché gli andava, gli piaceva così. Sarà stato anche un 28, Gerhard Berger, ma é stato capace di farsi volere bene. A modo suo. Un austriaco dallo spirito zingaro, scanzonato e dissacrante, disarmante. A tal punto che nessuno, nemmeno Ayrton Senna, vittima di scherzi terribili, è mai stato veramente capace di incazzarsi con lui.
Un personaggio unico, divertente sempre, talvolta oltre l’inverosimile. Apparentemente disimpegnato, ma in realtà molto sveglio. Ci accolse con il suo sorriso sfacciatamente ruffiano, quella prima volta che lo incontrammo, e gli chiedemmo l’autografo. La confusione e l’entusiasmo che noi italiani siamo sempre stati capaci di creare, a lui sono sempre piaciuti moltissimo.

In pista è sempre emersa una certa dose di indubbio talento, fin dalle prime apparizioni in F.3, ed anche in F.1. Aveva anche, talvolta, quella grinta e concentrazione necessarie per emergere davvero nella durezza delle battaglie. Talvolta. Perché per lui era più importante divertirsi, potere sghignazzare anche sotto il casco, andasse come andasse. Vorrei essere anche io, un po’ come lui, a volte. Non prendersi mai troppo sul serio, sdrammatizzare, sorridere. Come quella volta dell’autografo, in cui sorrise davvero a tutti. Chissà se è davvero austriaco, questo istrione delle piste, questo 28 atipico. Chissà cosa sarebbe stato, se avesse potuto avere come coach in pista uno come il suo connazionale Niki Lauda… Magari un albo d’oro molto più pingue delle sue 10 affermazioni in F.1. Magari meno cuori spezzati, nell’altra metà del cielo. Ma vuoi mettere come saremmo stati più poveri tutti noi, con questo zingaro d’un asburgico in meno?

Condividi su: