Benetton, dalla simpatia della F.1 all’odio per Autostrade storia di una famiglia al centro del

In principio furono i maglioni, prodotto quasi artigianale di una piccola azienda veneta in cui due fratelli, Gilberto e Luciano Benetton, riempirono le catene di negozi in giro per il Nord Italia. Poi l’idea fu quella di creare una immagine alternativa, simpatica e di rottura con un prodotto fondamentalmente banale come può essere un maglioncino. I tempi di Marchionne e del suo pullover erano ancora lontani da venire. Poi ci fu l’accoppiata con Oliviero Toscani e le sue pecore colorate sui prati argentini. Simpatia, innovazione, un nome che si faceva largo nel mondo industriale come qualcosa di simpatico e positivo. Poi l’ingresso in F.1, il miglior biglietto da visita mondiale per una azienda che deve farsi conoscere. E a quel tempo, inizi anni 80, Benetton era in espansione davvero, per cui la F.1 era davvero il veicolo giusto per imporsi.
E lo fecero dapprima sponsorizzando squadre (Tyrrell, Alfa Romeo, Toleman), ma sopratutto piloti. Si deve a Benetton l’appoggio a piloti come Alboreto, Patrese, Ghinzani, Teo Fabi, Cheever (Americano di Roma…) o Alessandro Nannini, uno dei piloti più amati dalle folle. E poi ancora altri in tempi più recenti. L’innovazione e la simpatia dei maglioni portati in F1. Da semplice sponsor a team autosufficiente. Quando la Toleman andò in crisi, si fece un rapido consulto e l’idea fu semplicemente banale: visto che per correre servono sponsor, perché non corriamo noi in prima persona, chiamandoci Benetton, e facciamo pagare le spese agli sponsor? E così da semplice finanziatore Benetton divenne un team a tutti gli effetti. I piloti, Piquet tanto per citarne uno, o Emanuele Pirro per ricordare un altro italiano aiutato da quella filiera che furono i Benetton. Ma anche le innovazioni grafiche, le auto multicolorate, come i maglioncini, le gomme dipinte (che oggi Pirelli usa per distinguere le mescole in realtà furono una idea folle dell’allora DS Paolini, fine anni 80. E poi la svolta.
Arriva Briatore nel 1989, il suo ruolo: cacciatore di soldi. La Benetton è una squadra competitiva a tutti gli effetti, per competere contro Ferrari o McLaren e Williams servono soldi. E talenti. E così mentre Briatore si dava da fare per trovare quattrini, nel frattempo scovava talenti. Non per altro: prendere un campione costava dei soldi, che non c’erano. Un giovane veloce non costava niente e poteva lottare al vertice. Bastava cercarlo. Cosa accaduta con i vari Fisichella e Trulli (altri due italiani dell’orbita Benetton) e poi con Schumacher e Alonso, anche se quest’ultimo è più opera Briatore che Benetton ormai in disarmo a quel tempo. Insomma, una filiera di giovani rampanti, una squadra simpatica e competitiva, schemi tradizionali della F.1 rotti e tanta simpatia e comunicativa perfetta. I Benetton in F.1 sono stati precursori di tante cose che oggi sono scontate. Il dinamismo dei giovani, poi. Infatti Luciano Benetton del team se ne è sempre occupato molto poco, è toccato prima al figlio Alessandro e poi a Rocco fare da presidenti del team, prima di cedere tutto a Renault e aver vinto dei titoli mondiali.
I rapporti con la stampa sono sempre stati buoni, al punto da mettere a disposizione il proprio aereo privato per alcune presentazioni internazionali del team. Presentazioni che erano qualcosa di unico. Si pensi a Taormina 1996, nel teatro Greco e poi con Alesi e Berger al volante delle F.1 a sfilare per il centro cittadino. Oppure la presentazione a Venezia, in piazza San Marco, cosa mai più eguagliata. Insomma, con la F.1 i Benetton hanno comunicato bene, simpatia, efficienza, dinamismo, onestà e pulizia. I figli Alessandro e Rocco emblema di ragazzi per bene impegnati non solo in pista ma anche nel sociale. Nel frattempo il business dei maglioni era in calo, altre aziende, altri trend si stavano affacciando. La F.1 non serviva più agli interessi aziendali, che cominciarono ad essere deviati verso il mondo della finanza e della gestione stradale.
Ci furono le privatizzazioni e Luciano Benetton con la sua Schema 21, la Holding di famiglia, intuì che poteva essere il business del futuro. E così è stato. Accordi firmati a netto favore grazie alla distrazione o sottovalutazione della classe politica dell’epoca (i Benetton hanno sempre avuto ottimi rapporti con tutti gli schieramenti), la nascita di Autogrill, del sistema Telepass, insomma una sorta di grande esclusiva nella gestione delle strade, dei servizi e dei pagamenti. Già tutto questo potere aveva minato la simpatia costruita negli anni con la F1 e le pecore colorate, fino a quando non si è arrivati al crollo di Genova e l’attuale ondata di odio verso un nome. Giusta o meno che sia. Ma questo non spetta a noi stabilirlo. Di sicuro è che oltre ai Benetton sono cambiati anche gli italiani.
Ai tempi della F.1 ci ho lavorato spesso, ho visitato la sede di Treviso, ho conosciuto la famiglia ho sempre avuto rapporti simpatici e senza problematiche varie. Quando criticavo l’operato di Briatore o le scelte sbagliate del team, non c’è mai stata nessuna pressione contraria. Ad esempio, nel 1994 con il settimanale Rombo spingevo affinchè dessero il secondo sedile ad Alboreto invece che a JJ Lehto, che poi fu assunto. Non risparmiai critiche feroci perché per una azienda che aveva lanciato tanti italiani in F.1 in quel momento stava chiudendo di fatto le porte in faccia a uno dei nostri piloti più forti. Eppure non ci fu nessuna ritorsione o altro. Risposero educatamente sostenendo le loro ragioni e spiegando perché avevano fatto quella scelta. Per questo oggi fatico a vedere i Benetton come quel mostro identificato da buona parte della opinione pubblica scossa per i fatti di Genova. Ci sono state responsabilità, senza dubbio, errori ed omissioni, evidente. Ci sono stati morti dovuti a incuria e superficialità, ma anche col pulmann caduto in Irpinia perché le barriere non riuscirono a contenere il bus (e ci furono oltre 40 morti) l’indagine ha dimostrato incuria e altri errori.
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