DI PAOLO CICCARONE RIPRESE FRANCO SCANDINARO
C’era un tempo in cui i giornalisti che lavoravano in F.1 erano considerati in maniera diversa da oggi. Era il tempo in cui si parlava coi piloti senza avere gli addetti stampa in mezzo ai piedi, era il tempo in cui era il tuo articolo a orientare l’opinione pubblica ed era il tempo in cui la TV si rivolgeva a 10 milioni di spettatori in Italia, per cui il linguaggio doveva essere pacato, educato, divulgativo per far comprendere a chi non fosse esperto di corse, cosa stava accadendo. Certo, per gli esperti poteva sembrare sbagliato, ma per gli altri 9 milioni di spettatori era più che sufficiente. Da qui il successo della categoria, gli eroi popolari dell’epoca.
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Ma restava sempre un ultimo punto da superare: il giornalista che criticava il pilota, cosa avrebbe fatto al posto suo? Era l’epoca in cui i piloti firmavano le rubriche sui giornali, quotidiani e specializzati. Certo, non scrivevano direttamente loro ma un giornalista trasformava i loro pensieri in articoli coerenti. Chi scrive, per anni, era la voce occulta di Jean Alesi sulle pagine di Rombo, il settimanale fondato da Marcello Sabbatini. Ma tornando al punto di prima, cosa avrebbe fatto un giornalista al volante di una F.1? Era ovviamente una F.1 molto diversa, più umana e vicina a quelle che erano le auto da corsa di quel periodo. Parliamo di venti, trenta anni fa, quando fra una F.1 e una F.3 le differenze erano di potenza e aerodinamica, non c’era il salto quantitativo di oggi.
Basti dire che una F.3 di oggi ha almeno 450 CV, quanti ne aveva la McLaren dei mondiali di Hunt o la Ferrari di Lauda, per dirne una. Capitava quindi che una Casa o uno sponsor organizzassero una seduta riservata ai giornalisti che avessero almeno un minimo di esperienza agonistica con auto da corsa. A chi scrive capitò a Magny Cours nel 2003, a contorno del GP di Francia, grazie ad Alpinestars che requisì le monoposto della scuola presente in loco. La preparazione fu rapida, tanto che nemmeno i pass dal collo furono tolti.
Poi in macchina, alcune istruzioni, e partenza a spinta per evitare che qualcuno bruciasse la frizione. Una Larrousse e una Arrows a disposizione dei pochi giornalisti internazionali presenti. In rappresentanza della stampa italiana in loco, mi capitò una Larrousse. Breve introduzione con Jacques Laffitte che spiegò come fare: “Allora, una volta che sei partito, metti la seconda, non serve la frizione (ancora a pedale su quella macchina, ndr) poi metti la terza, la quarta e se non ti caghi sotto prova pure la quinta. Quando arrivi in curva, frena e scala le marce: semplice no?”. In effetti le istruzioni erano basiche, per cui tanto vale infilarsi nell’abitacolo, cosa riuscita grazie a una forma fisica che oggi ce la sogniamo, poi istruzioni sui comandi del volante (pochi e senza complicazioni), attacco contatto elettrico col classico ditino alzato, spinta dei meccanici e via la frizione per la messa in moto.
E qui si apre un mondo fatto di vibrazioni, scuotimenti che man mano che aumenti la velocità scompaiono. Una F.1 è fatta per correre, se vai piano non funziona niente. I freni non vanno in temperatura, le gomme sono fredde e vai da un lato all’altro della pista, l’aerodinamica non funziona. Una volta tornati ai box, senza aver fatto danni e aver messo tutte le marce, con sogghigno di Laffitte: “Allora, cambiato il pannolino?”, si scende con la gioia di aver realizzato un sogno, quello di aver guidato (non pilotato, altra cosa) una moderna F.1 su un tracciato da gran premio. Era il mestiere del giornalista di anni fa…