F.1 IL RACCONTO Jim Clark, la morte lo ha preso ma non lo ha raggiunto mai

DI MAURIZIO MELZI

Jimmy e la ruota

Per chi è appassionato di automobili e di corse c’è un nome che, a distanza di quasi un secolo è ancora molto importante: Juan Manuel Fangio.

 

Il fatto che questo corridore argentino sia stato mitizzato è dimostrato da due fatti incontrovertibili: i vecchi milanesi, quando vedono qualcuno andare troppo forte nel traffico, lo apostrofano con un “Uè, Fangio!” marcando un posto stabile nella cultura popolare.

E Fangio è stato l’unico pilota di F1 ad essere rapito.

Nel ’58, dai guerriglieri castristi che volevano attirare l’attenzione mondiale sulla loro lotta.

Finì tra strette di mano, con Fangio che fu grato ai guerriglieri di avergli impedito di correre un GP pericoloso, funestato da un grave incidente con morti e feriti, e i guerriglieri che gli chiesero l’autografo.

Molti anni fa, ad un cocktail party in suo onore, in Inghilterra, gli fu presentato un anziano meccanico di Formula Uno.

Il Campione gli chiese per che team, per che piloti avesse lavorato.

Questi cominciò l’elenco: Lotus, Cooper, Hawthorne, Moss, Hunt, Fittipaldi… Jim Clark

Fangio lo fermò. Alzò il dito indice e gli disse:

Secondo me, Jim Clark è stato il più grande, di tutti, sempre.”

Per raccontare chi era Jim Clark, lo scozzese volante, non basterebbero dei giorni, ma basta un anno, il 1965, per raccontare cosa ha fatto.

 

L’anno iniziò nell’emisfero Australe, con un campionato noto come Tasman Series. Jim Clark vinse 11 delle 15 gare e divenne Campione.

Tornò in Europa, un volo che aveva all’epoca 8 stop over, per partecipare al Campionato nazionale di Formula due.

Come scozzese partecipava al Campionato Inglese, come corridore anche a quello francese. E vinse, tutti e due.

Poi prese un altro di quei lunghi voli transatlantici e andò negli Stati Uniti, per correre la gara più famosa: la 500 miglia di Indianapolis.

Il fatto che fosse già stato campione del mondo di Formula uno nel 1963 non convinse del tutto gli organizzatori, che lo fecero provare per capire se fosse il caso di lasciarlo correre.

In gara partì dalla prima fila. E vinse la gara.

Tornò in Europa, per partecipare al Campionato di Formula uno.

Sapete già come andò a finire.

Nessun pilota prima o dopo di lui ha mai fatto lo stesso.

 

Certo, Jim Clark correva con una vettura straordinaria, la Lotus 25. La prima vettura di formula uno monoscocca, frutto della genialità di un grande, grandissimo, ingegnere: Colin Chapman.

La Lotus 25 cambiò tutto: fu per l’automobilismo sportivo quello che i Beatles furono per la musica pop.

Innovativa, bella, vincente, ma non molto robusta.

Le Formula Uno dell’epoca erano auto molto meno potenti di quelle di oggi, avevano un motore da un litro e mezzo e sviluppavano circa 200 cavalli; andavano forte, ma bisognava saperle fare andare forte senza distruggerle per questo, e Jim sapeva come.

Consumava meno gomme e freni dei suoi colleghi e anche meno benzina, però vinceva. Quasi sempre.

Non era molto bravo nella bagarre, nel passare tra le altre auto; sopperiva partendo per primo e non mollando mai.

In Formula uno il grande slam è quando fai la pole in prova, quindi parti per primo, conduci in prima posizione tutto il gran premio, facendo il giro più veloce e vinci.

Senna l’ha fatto quattro volte in carriera, Schumacher cinque.

 

Jim Clark otto.

Ma la storia più bella su Jim Clark l’ha raccontata un altro suo meccanico, Dave Sims, il meccanico che era con lui il 7 aprile del ’68, il giorno in cui Jim Clark morì a Hockenheim.

Sims, a distanza di cinquant’anni, racconta quel giorno con tristezza, a partire dal descrivere la giornata grigia e fredda, le gomme che non andavano in temperatura, e Clark che gli disse. “Non aspettarti granché oggi, dammi solo la posizione e quanti giri mancano con il tabellone” Le sue ultime parole.

 

Quando Dave arrivò al luogo dell’incidente vide i resti dell’auto. Ma c’era solo il davanti.

Dov’è il motore!? dov’è il cambio!?!” Chiese

“Sono 30 metri più in là, tra gli alberi. Hanno tagliato tutti i cespugli fino a là…”

“Dov’è il pilota!?! Dov’è Jim!?!” Chiese

Gli risposero. “No.”

 

Nel raccontarlo Sims si emoziona, cinquant’anni dopo, gli occhi si velano di lacrime e, da buon inglese, si scusa: “For me is tearful, I’m sorry.”

 

Poi ti racconta chi era davvero Jim Clark.

Gran premio di Barcellona.

Dopo 10 giri di prove Clark rientra ai box

“C’è qualcosa che non va con la posteriore sinistra” dice.

I meccanici controllano, con il motore ancora acceso. Sembra tutto a posto.

Ma Clark dice di no. Scende dalla macchina e smette di provare.

Quella sera, quella notte, Sims smonta tutta la sospensione posteriore sinistra, con semiasse e ruota, la smonta tutta, pezzo per pezzo, ogni singolo bullone o vite. Avete idea di quanti pezzi possano essere? Ve lo dico io, tra i cinquanta e i cento.

Il giorno dopo va da Clark.

È a posto adesso Jim.” Gli dice.

“Cos’era?”

“Un cuscinetto interno alla ruota, stava iniziando a deteriorarsi.”

Questo era Jim Clark…

Il giorno della sua morte il commentatore di una radio californiana invitò tutti gli ascoltatori alla guida ad accendere i fari delle proprie auto, in segno di rispetto per Jim Clark.

E le autostrade californiane si illuminarono.

Ironia della sorte per un uomo che aveva questa capacità di visione: una visione quasi fisica, non solo attraverso gli occhi.

Una visione che non si fermava alla superficie e che analizzava anche tutto quanto c’era dietro, o sotto. I dettagli.

Il diavolo sta nei dettagli, dicono gli inglesi, ma se la passione te li fa vedere, quei dettagli, riesci ad andare più veloce di tutti.

La morte potrà anche aspettarti dietro una curva, su un rettilineo costeggiato da alberi.

Ma il diavolo non ti prenderà mai.

 

 

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